INTERVISTA ALLA DOTT.SSA TINA OTTOLENGHI, PRESIDENTE DELLA COMUNITA’ ISRAELITICA FERRARESE (Sinagoga 27/02/1996)
Di Marica Peron
Io nel ’38 avevo 17 anni e perciò ho subito la cacciata dalla scuola e ho frequentato poi andata la scuola ebraica di Milano che si era costituita. Ho fatto l’ultimo anno di Liceo e poi, contemporaneamente, è stato organizzato, sempre dalla comunità ebraica di Milano, un corso parauniversitario di chimica in quanto c’erano stati molti professori universitari cacciati e io ho frequentato il primo e il secondo anno. Eravamo in pochi, c’era appunto la signora Falco che era stata anche una compagna di Liceo e, come le dico, come ho già avuto occasione di dirle alla mostra e ai ragazzi, è stato per me un periodo molto bello, molto stimolante, molto vivace che non mi ha fatto sentire in modo deleterio l’uscita dalla scuola pubblica, la perdita delle amicizie, delle compagnie giovanili che avevo nella mia classe, perché si sono formate nuove amicizie, l’ambiente era molto vivace, molto intelligente. Avevamo bravissimi professori…
D. Ho sentito parlare molto di questa scuola ebraica di Milano… mi hanno detto che c’era il fior fiore delle intelligenze…
R. C’era un professore, aspetti, il preside, che era stato preside anche qui a Ferrara di un Liceo, mi verrà in mente [Colombo]. Poi però con le persecuzioni naziste, con la caduta, con l’8 settembre… Ah, dal punto di vista familiare io vivevo col padre e una sorella. Avevamo perso la mamma da bambine, proprio da bambine. Avevamo vissuto con la nonna, ma in quel periodo la nonna era molto anziana. A Milano c’erano continui bombardamenti e in uno di questi abbiamo perso anche la casa. Mio padre era un farmacista, era dottore in chimica e farmacia e possedeva una farmacia che naturalmente non poteva più gestire lui come professionista, ma aveva passato la direzione a un collega farmacista.
A Milano, nel nostro quartiere, mio padre era molto ben voluto, non siamo stati molestati.
D. Era un quartiere borghese?
R. Era un quartiere direi abbastanza popolare. Non siamo stati disturbati, però dopo l’8 settembre siamo fuggiti anche perché ara stata bombardata la casa, non c’era più il modo di abitare a Milano. La nonna invece viveva con una figlia che abitava a Biella ed è poi morta in quegli anni, tranquillamente, di morte naturale, di vecchiaia, non è stata disturbata dalle deportazioni.
Noi ci siamo rifugiati in quel periodo in Val Sesia sopra quei paesini, si chiamavano uno Celio, l’altro Senna, e siamo vissuti in clandestinità.
D: Eravate ospiti presso una famiglia…
R: Eravamo un nucleo abbastanza grandino perché nel frattempo io mi ero fidanzata, a questa scuola di chimica, con un compagno di scuola che era un ferrarese, un Pesaro, e questo ragazzo aveva un fratello che era maggiore di lui di parecchi anni, che lavorava a Vercelli. Allora, c’era la famiglia di questo ing. Pesario che stava a Vercelli con la moglie e due figli, poi c’era la madre e una zia e poi c’eravamo noi, mia sorella che nel frattempo si era sposata e aspettava un bimbo, io, e perciò tra un paesino e l’altro eravamo un gruppo abbastanza notevole. Avevamo preso in affitto un appartamento in questo paesino di montagna, in uno di questi non c’era neanche la strada per le macchine.
E lì abbiamo vissuto. C’eravamo spacciati per gente che veniva dal sud, sfollati.
D. Avevate anche dei documenti falsificati?
R. Avevamo dei documenti falsi e siamo vissuti lì, diciamo, abbastanza serenamente per un anno, un anno e mezzo.
Però le cose precipitarono. Avevamo avuto notizie di parenti portati via dai tedeschi e io avevo, come le dicevo, una zia e dei cugini grandi a Biella, perciò sempre abbastanza nella zona, e attraverso queste persone avevamo avuto delle notizie allarmanti.
Allora si decise di passare in Svizzera. Perciò tutto questo grosso gruppo, attraverso le informazioni e penso anche gli aiuti, cioè “i contatti” con organizzazioni che potessero favorire il nostro passaggio clandestino in Svizzera, avevamo preso questa decisione e infatti così abbiamo fatto. Si era deciso che, dato che non eravamo stati disturbati lì, che la mamma e la zia, che erano persone anziane, non venissero, restassero lì tranquille, perché c’era da fare della montagna, c’era da camminare.
D. Magari era anche inverno!
R. Ed era inverno, era dicembre. Però è stato un inverno abbastanza mite quell’anno lì. Io non ho partecipato direttamente all’organizzazione perché c’erano quelli più grandi di me, per cui io non so dirle ne quello che hanno voluto i contrabbandieri ne come si fossero messi in contatto con questa gente, non glielo so dire perché non ne sono stata informata, era mio padre… Ad ogni modo, ad una certa data di dicembre, diciamo prima di Natale ecco, siamo andati a Como. A Como noi avevamo delle conoscenze perché sfollavamo da Milano quando hanno incominciato i primi bombardamenti, sfollavamo a Como dove avevamo preso in affitto un paio di stanze presso una signora, la signora Noseda, che è un nome tipicamente comasco, e lì abbiamo fatto tappa, dopo di che siamo stati messi in contatto con questi contrabbandieri.
Avevamo ognuno una valigia, non tanto grande, che si potesse portare e eravamo in un bel gruppo…
D. E si sono comportati bene questi contrabbandieri?
R. No, i contrabbandieri non si sono comportati bene perché avevamo l’appuntamento in una certa osteria in un paese, avevamo già consegnato i bagagli perché ce li dovevano portare loro e non si sono fatti trovare. Perciò abbiamo perso i soldi che gli avevamo già dato, i bagagli che gli avevamo consegnato e questi qui non si sono visti. Perciò con estremo, grandissimo rischio, siamo ritornati a Como. Immagini che in questi frangenti molti sono stati presi o uccisi lì sul posto vicino ai laghi, anche sul Lago Maggiore, oppure poi deportati. A noi ci è andata bene. Con l’aiuto di un conoscente di questi miei parenti biellesi, loro erano degli industriali lanieri, un fedele dipendente non ebreo, fedelissimo, una persona straordinaria, si chiamava Eugenio Preato, e proprio lui in questa occasione si dato, benché non ci fosse nessuno della famiglia dei Vitale con noi, nel nostro gruppo, si chiamavano Vitale questi miei parenti, moltissimo da fare e ci ha trovato degli altri contrabbandieri con cui tentare un altro passaggio e con questi secondi ( avevamo gioielli imbottiti dentro, cuciti dentro per affrontare questa avventura, oltre a denaro, qualche spilla, qualche anello, qualche gioiello in modo alla necessità di poter far fronte… Questi secondi contrabbandieri sono stati puntuali e durante la notte, attraverso la montagna, ci hanno accompagnato in Svizzera.
A un certo punto hanno sollevato la rete, c’era tutta la rete divisoria, c’era la rete, un filo spinato, in qualche punto c’erano campanelli per cui se si muoveva la rete i campanelli suonavano e accorrevano le guardie. C’erano le guardie di frontiera, c’erano i finanzieri, c’erano anche dei fascisti. Ad ogni modo i contrabbandieri ci alzarono la rete in modo che noi siamo passati sotto e siamo passati di là. Noti che in questa compagnia, in questa grossa compagnia, c’erano i due bambini di mio cognato che avevano uno 4, l’altro 6 anni e non dovevano piangere, non dovevano tossire, non dovevano far rumore perché gli era stato spiegato insomma e mio padre, che adesso non ricordo di preciso quanti anni avesse (quando si è giovani sembrano sempre anziani, ma probabilmente era sui 55, sì e no 60, però non era in gran forma per cui è stato molto difficile, molto duro questo passaggio.
Passati di là “Ah, adesso siamo liberi!Evviva evviva!” e ci siamo riposati che poi era ancora terra di nessuno perché la rete era su territorio italiano, però un pezzo ancora di là era ancora italiano e noi avremmo potuto essere presi o sparati… ma noi presi dall’euforia… per fortuna non è arrivato nessuno, fortunatamente non è arrivato nessuno. Fatto sta che ci siamo inoltrati in territorio svizzero finché abbiamo incontrato una guardia di frontiera svizzera che ci ha poi accompagnato al posto di polizia.
D. E lì come siete stati trattati?
R. E lì è sta una cosa terribile perché, mentre noi eravamo pieni di speranza e di felicità, di euforia, ci hanno respinto. Hanno tenuto, dopo grandi richieste, i due bambini piccoli e i genitori, hanno tenuto mia sorella e mio cognato perché lei era incinta e non dividevano le famiglie, e basta! Mio padre e noi due giovani ci hanno respinto. Mio papà non stava bene, non riusciva neanche a camminare. Ci hanno dato una pagnotta e forse ci hanno fatto bere qualcosa di caldo e noi abbiamo chiesto la visita di un medico per il papà. “Lui sta male, non riesce certo a camminare, è una cosa inumana se voi buttate fuori una persona in queste condizioni!”, ed è venuto effettivamente un medico che ha riscontrato le condizioni di salute di mio padre e l’hanno tenuto, però noi giovani ci hanno mandato via, ci hanno respinto. Ci hanno riportato alla frontiera e un soldatino, era un ragazzo, un ragazzetto, di leva probabilmente, svizzero, ci ha detto: “Ma guardate, adesso io vi insegno…!” , gli avevamo dato una spilletta tirata fuori dal giustacuore, gliela abbiamo regalata e lui ci dice: “Ah!guardate. Prendete questo sentiero, tenete sempre la sinistra, andate andate avanti, andrete a finire ad un altro posto della polizia di frontiera dove mi hanno detto che sono più tolleranti, più liberali, più buoni. C’è caso che vi tengano!” E infatti noi ci avviamo. Ormai nelle valigie non avevamo più niente. Ci incamminiamo e cammina e cammina nella notte, sembra una di quelle favole, evidentemente abbiamo sbagliato – trovandoci in una zona che non conoscevamo – , siamo ricaduti nello stesso posto, gira e gira. “Che cosa fate, vi avevamo mandato via, che cosa pretendete… noi abbiamo degli ordini!” Respinti ancora. Noi, più o meno disperati, prendiamo di nuovo gambe in spalla e camminiamo di nuovo un’altra notte. Ci troviamo sulle montagne sopra il lago di Como e ci siamo trovati a Malcesina e lì abbiamo preso il battello per andare di nuovo a Como. E infatti, anche lì ci è andata bene, non ci sono stati rastrellamenti. Ritorniamo a Como da quella signora che ci aveva ospitato, dalla signora Noseda che gentilmente ci ha ancora preso, a suo rischio eh!, ci ha ancora preso in casa. Arrivati lì: “E adesso che cosa facciamo?”. Ah, noti questo, follia pura, che noi per essere presi in Svizzera avevamo sulle nostre carte d’identità stampigliato “di razza ebrea”…perché così se ci chiedono dei documenti risulta…Ma naturalmente anche quei documenti lì li avevamo cuciti dentro ai vestiti, perché se ci avessero fermato qualcun altro…Allora arrivati a Como noi pensiamo che l’unica cosa strategica da fare era quella di ritornare in Val Sesia dove c’erano la mamma e la zia per riunire almeno una parte della famiglia, quegli altri si sono salvati, sono di là…, noi torniamo, ma si trattava poi di andare su in Val Sesia e si trattava anche di procurarsi dei documenti falsi. Allora, il mio fidanzato, si chiamava Ruggero Pesaro, si ricorda di conoscere un tale, a Milano, che avrebbe potuto procurarci delle carte false. Da Como siamo andati a Milano, a Milano abbiamo cercato questo signore il quale ci ha ospitato, adesso non ricordo più precisamente se a casa sua o se a casa di amici suoi, ci ha ospitato per un paio di notti a Milano nel frattempo che lui ci avrebbe procurato questi documenti falsi. Fatto sta che questi documenti falsi poi li abbiamo avuti e siamo tornati su in Val Sesia. Era anche pericolosissimo questo viaggio. Uno perché sui treni ogni tanto c’erano delle retate e poi perché devo dire che Ruggero Pesaro era in età militare, perché poteva essere preso per un disertore (lui aveva 19 o 20 anni), insomma perciò un doppio rischio, rischio come renitente alla leva, come fuggitivo, sa dopo l’8 settembre, e in più come ebreo, perciò facciamo i conti…Insomma anche lì il Signore ci ha protetto. Siamo arrivati su di nuovo in Val di Sesia. Abbiamo trovato la mamma e la zia che stavano bene, erano naturalmente in gran pensiero perché non avevano più saputo niente del destino degli altri figli. E siamo tornati lì a Ceresio. Era in zona partigiani, del famoso Moscatelli, e c’erano continue scorrerie di tedeschi, partigiani, retate, spie, poi c’erano state anche delle spiate molto pese contro i partigiani. Insomma, fatto sta che noi, che eravamo in un paesino che si chiamava Catarafano, quando vedevamo (mia suocera poveretta che dormiva poco la notte era sempre lì ad ascoltare) o sentivamo dei rumori di camion o di automobili o si vedevano i fasci di luce (allora erano solo i tedeschi che giravano), noi avevamo uno zaino pronto con dentro qualcosa da mangiare, l’acqua, dei maglioni, i guanti -era inverno-, sacco in spalla correvamo nei boschi perché se mai ci fossero state delle retate o delle cose nelle case noi due giovani scappavamo nei boschi. Fatto sta che questa cosa qui l’abbiamo vissuta per qualche mese, questa vita, in questo modo; quando, sempre attraverso questo signore amico di Biella, attraverso uno dei nostri cugini che anche lui era stato respinto perché anche lui era giovane (i fratelli che avevano famiglia non erano passati in Svizzera con il nostro gruppo, loro erano passati separatamente, invece l’ultimo dei fratelli Vitale, di questi cugini, era stato anche lui respinto come eravamo stati respinti noi. Allora, attraverso appunto queste persone, veniamo a sapere che la legislazione in Svizzera si era addolcita e che accettavano anche i giovani. Abbiamo fatto un altro tentativo, questa volta noi due soli, sempre pagando dei contrabbandieri, mettendoci in contatto. E questa volta abbiamo passato il confine in una zona non così montuosa come quella dietro il lago di Como, ma in una zona un po’ più pianeggiante, adesso non ricordo bene il nome. Ad ogni modo siamo passati, questa volta ci hanno accettati e siamo stati internati in Svizzera nei campi. E non si stava poi così male, si stava male nei campi militari. Si stava, era la prassi generale, in un primo tempo, tutti i rifugiati, che poi erano anche militari italiani, non solo ebrei, però i militari stavano in campi diversi. I civili, che poi erano quasi tutti ebrei, c’erano anche dei politici ma erano pochi, passavano prima in un campo sotto l’amministrazione militare e lì si era abbastanza chiusi: non si poteva uscire altro che con un militare davanti e di dietro, in fila, c’era stato lo spidocchia mento perché come arrivati ti facevano spogliare nudo, ti disinfettavano, gli svizzeri ti portavano via tutti i vestiti, li mandavano tutti a sterilizzare, a disinfettare, e poi dopo te li restituivano e intanto ti avevano dato una coperta da metterti su mentre aspettavi. Passavi la visita dei pidocchi e tutte queste cose e nei campi militari, oddio!, dipendeva dal furiere, se il furiere rubava c’era poco da mangiare, se il furiere era una persona onesta, insomma…in confronto ai razionamenti che c’erano in Italia e in guerra e in quelle condizioni, non si stava male. Poi dopo io sono riuscita, noi siamo riuscite, a farci mettere a lavorare in cucina per cui qualche cosa si poteva tirar su. Dopo di che si passava sotto l’amministrazione civile e probabilmente c’era gente della Croce Rossa, ma non tanto guardi!.La CroceRossasi interessava a fare avere, per esempio, abbigliamento. C’era roba che proveniva dall’America e che veniva distribuita. Però sotto l’amministrazione civile io sono stata separata dal mio fidanzato, dal mio ragazzo, e sono stata mandata in un campo per famiglie, mentre il mio fidanzato è stato mandato in un campo di lavoro che era solo di uomini, in cui si trattava di dissodare dei terreni, di tirar via delle pietre in montagna, insomma un lavoro piuttosto pesante. Viceversa, io ero in un campo per famiglie. A questo punto prima sono stata a Balerna, poi a Lugano un certo numero di mesi. Mi ero messa nel frattempo in contatto con mio padre, mia sorella che erano a Losanna, e ho fatto un po’ di ricerche per sapere le persone che erano entrate in quella data da quel varco di frontiera dall’Italia e dove erano. E loro erano a Losanna. Poco dopo mia sorella ha partorito…
D. In quelle condizioni…
R. In quelle condizioni. Alla maternità di Losanna ha avuto un maschio e lei viveva a Losanna in campo, sempre in campo, perché per essere liberati bisognava avere un bel po’ di soldi e pagarsi una specie di riscatto, diciamo, e una assicurazione che si potesse vivere senza lavorare perché gli svizzeri non permettevano che questa gente lavorasse oppure facevano fare questi lavori che dicevano loro. Per cui noi, che non ci trovavamo in quelle condizioni, siamo rimasti in campo. Io poi, dopo esser stata a Lugano per un certo periodo di tempo –gli svizzeri avevano completamente sgomberato un albergo perché il turismo non ce n’era più, avevano tirato via completamente tutto in queste stanze avevano messo dei sacconi, dei pagliericci insomma, per terra, qualche “etageres”, qualche scaffale così, tanto la gente aveva pochissima roba e lì ci si stava in sette-otto-dieci, secondo…)
D. Si ricorda il nome dell’albergo? Perché la signora Bonfiglioli è stata in albergo…
R. Probabilmente sarà stato lo stesso ma non me lo ricordo…
D. Lei ricorda il particolare del “parquet”.
R. Sì, c’era un parquet che noi tenevamo con la parafina, lo tenevamo lucido. Probabilmente era lo stesso: era un bell’albergo, di prim’ordine, aveva la piscina che non era tenuta…
D. Era probabilmente il Majestic?
R. Il Majestic, giusto! Era il Majestic.
D. Era lo stesso periodo?
R. No, perché io non l’ho mai incontrata la signora Bonfiglioli. Loro sono passati probabilmente in periodi diversi perché io non l’ho trovata là la signora Bonfiglioli, lì…
D. A Lugano?
R. A Lugano. Dopo di che io sono stata (i pagliericci, avevano tirato via tutti i mobili, sono due corrispondenze uguali, corrispondono) e da lì sono stata trasferita in Engadina a Curvalden che dipende dal Cantone di Cur, Cur è la città prinicipale, e ero in un bellissimo posto di montagna, da sci, dove allora non c’era più niente e sono stata messa a lavorare nella nursery, nella pupponiera, perché lì c’era l’abitudine, che c’erano le famiglie, famiglie provenienti, c’erano anche molti ebrei che venivano dalla Francia ma che erano di origine polacca, c’erano le famiglie, però i bambini li tenevano separati dai genitori, lì nello stesso stabile, non lasciavano che i genitori si occupassero dei bambini.
D. Ma cos’è la mentalità svizzera…
R. E’ la mentalità svizzera perché c’era questa Swaizer svizzera che si chiamava Margaret che era un’anziana donna col velo, una puericultrice, che dirigeva questo Kinder che era per bambini di età d’asilo infantile più la puppinier che era dalla nascita fino a un anno. Erano divisi in questo modo. I bambini più grandi, quelli al di sopra dei 5-6 anni, li mettevano presso delle famiglie svizzere, cioè facevano una specie di adozione penso per farli star meglio che non nella vita dei campi perché i bambini dell’asilo e della pupponier ricevevano delle cure sia come alimenti e poi avevano il medico, insomma erano trattati bene, meglio che se fossero stati coi genitori. Ma quelli piccoli avevano i genitori nello stesso campo per cui alle 2 alle 3 del pomeriggio i genitori se li prendevano e se li tenevano qualche ora con loro e poi li riportavano per l’ora di cena. Viceversa quelli che erano più grandi erano presso delle famiglie che magari non erano lì nel luogo, erano in altre città, infatti i miei due nipoti, quelli di allora 4 e 5 anni che poi erano diventati di 5 e di 6 (loro sono stati poi un paio d’anni in Svizzera), erano a Losanna presso delle famiglie e loro non li potevano mica vedere tutti i giorni.
D. Una specie di affidamento?
R. Sì, una specie di affidamento io sono stata messa a lavorare nella pupponier, avevo 5 bambini piccoli di pochi mesi di cui mi dovevo occupare, dargli da mangiare, pulirli, fargli il bagno e lì sono stata appena qualche mese e poi abbiamo fatto domanda e siamo stati riuniti. Nel frattempo io mi ero sposata in Svizzera col mio fidanzato. Ci eravamo sposati religiosamente, avevamo trovato un rabbino. Ancora a Lugano abbiamo fatto richiesta di essere riuniti e lui è stato trasferito nel mio campo che era poi a Curvalden che era abbastanza vicino, sempre nella zona dell’Engadina e siamo stati lì… ci si occupava dei lavori interni, il campo era gestito, era tenuto in ordine dai rifugiati…
D. C’erano dei grandi casermoni…
R. No, no, anche lì era a livello di pensioni, alberghi che erano chiusi, che non funzionavano, che erano evidentemente stati requisiti per questo scopo. Non si stava male, io avevo fatto anche delle buone amicizie all’interno dei rifugiati. Si erano organizzati corsi di lingue, fin di danza classica, si faceva musica, si facevano conferenze, c’era gente a un buon livello culturale per cui non era una vita passiva, poi si poteva uscire nell’ambito del paese, c’era libertà, non era come nel campo militare che si era accompagnati dai militari. Non si era granché ben visti dalla popolazione. Io personalmente, a parte qualche volta in un bar a bere un caffè lungo, non ho avuto dei rapporti di amicizia con la popolazione. Io i rapporti di amicizia li ho avuti all’interno del campo.
D. Sì, infatti mi hanno detto che è una popolazione piuttosto chiusa…
R. Una popolazione chiusa. Qualche volta quando si usciva ci si sedeva sopra una panchina. O si spostavano, molto spesso ti dicevano “sporco rifugiato”.
Poi lì abbiamo avuto la notizia della Liberazione e mentre tutti i rifugiati dovevano stare lì – infatti i miei cognati, mia sorella, mio padre sono rientrati nell’estate – invece noi abbiamo fatto domanda, in aprile-maggio, mio marito e io, di rientrare in Italia. Loro ce l’hanno concesso, senza la loro responsabilità. Ah! Noi avevamo dovuto depositare in banca tutti i gioielli che avevamo.
D. Ve li hanno ridati?
R. Ce li hanno resi perché c’era un elenco, avevamo il libretto svizzero dei rifugiati, un documento.
D. L’ha conservato?
R. Macché…
D. Che peccato!
R. Non l’ho conservato! Era un ricordo così brutto che l’ho buttato via. Ricordo che era azzurro, c’era la croce svizzera, il nome e dentro c’erano i vari spostamenti che avevamo subito.
D. Una specie di passaporto?
R. Una specie di passaporto. E ci hanno accompagnato alla frontiera, vicino ad Arona, e lì ci hanno liberato. E siamo rientrati nel momento dell’entusiasmo. Noi non avevamo più notizie della mamma e della zia che erano in Val Sesia, non sapevamo assolutamente più niente, non avevamo più avuto contatti. Dalla frontiera siamo andati a Milano, a Milano sparavano ancora per le strade. Siamo andati al Comitato di Liberazione, il C.L.N., che ci ha fatto un documento. Noi con il nostro passaporto svizzero, il documento dei rifugiati, avevamo dimostrato la nostra identità e il nostro passato, diciamo politico. Ci hanno fatto un documento e siamo stati qualche giorno a Milano andando a mangiare nelle mense, una confusione c’era!, una esaltazione, poi ancora sparavano eh. Da lì siamo rientrati su in Val Sesia attraverso delle vicissitudini, con la bicicletta, perché mezzi di trasporto non ce n’erano più, erano saltati i ponti sul Ticino, insomma con delle avventure che no le dico. Un po’ a piedi, un po’ in bicicletta, ci abbiamo messo 3 giorni, ci eravamo anche attaccati dietro un camion. Fra cadute siamo arrivati poi su e abbiamo trovato fortunatamente la mamma e la zia.
D. In buona salute?
R. In buona salute. Dopo di che abbiamo organizzato il rientro a Ferrara e questo è poi avvenuto al principio dell’estate.
D. Lei è ferrarese come nascita?
R. No, io sono milanese. Ecco, questa è stata la mia vicenda.
D. Qui a Ferrara cosa avete trovato? Entusiasmo…
R. Entusiasmo perla Liberazioneanche qui. Noi qui, la famiglia di mio marito, possedeva, possiede, una casa in via Quartieri e l’abbiamo trovata occupata da sfollati. Tutti i vetri rotti, un po’ la situazione della Ferrara bombardata, delle difficoltà anche di approvvigionamento. Era stata poi portata via, rubata, un mucchio di roba. Qualche cosa abbiamo poi ritrovato attraverso i Carabinieri, ma il grosso era andato depredato, era andato perso. Abbiamo vissuto in coabitazione come si usava allora, dopo la guerra, in tanti in tanti dentro questo appartamento e poi piano piano le cose si sono regolarizzate perché la gente che era in coabitazione con noi ha poi trovato da sistemarsi. Siamo tornati alla normalità. Questa è la mia vicenda che direi abbastanza avventurosa.
D. Mamma mia, soprattutto tutti questi tentativi di andare in Svizzera e poi così ostacolati…
R. Guardi, io mi ricordo che al ritorno, io a un certo punto avevo proprio perso la testa perché era a casa da questa signora, a riposare un po’, perché dopo tutte queste notti, questi passaggi, queste camminate… a un certo punto si sente suonare il campanello. Allora io dico: “Ah! Questi sono i fascisti, questi sono i fascisti, ci buttiamo giù dalla finestra, ci caliamo per il tubo della grondaia”. Insomma c’è voluto del bello e del buono di mio marito per calmarmi e poi non si trattava di quello, era un paio di amici, della gente che veniva a trovare questa signora.
D. E’ stato un momento di panico…
R. Appunto un momento di panico, ma anche la fatica di tornare su dopo, anche dopo la guerra. Di notte sparavano. Noi camminavamo, ci hanno fermato delle pattuglie e lì a dimostrare che non si era fascisti, perché lì facevano in fretta, sparavano eh!
D. E dei bombardamenti di Milano, l’impressione che le hanno lasciato anche dopo, anche dopo anni…?
R. No guardi, io ero molto incosciente. Quando si è giovani si è incoscienti, perché noi correvamo giù ai rifugi e finché… si sentivano queste bombe che scoppiavano… poi a un certo punto quando questi bombardamenti diventavano pù gravi, più pesanti, sfollavamo, però non le dico questi treni che partivano dalla stazione nord di Milano, perché c’erano i lavoratori giornalieri che andavano a dormire, sfollavano fuori città, perciò c’è stata gente che si era attaccata ai respingenti dei vagoni a cui sono state tranciate le gambe malamente, c’era gente appesa fuori dai finestrini, una cosa da India. E poi dopo quando è crollata la nostra casa sotto il bombardamento, andare a cercare, perché mio padre non sempre veniva a dormire fuori, allora poi per tornare, scavalcare tutte queste macerie, andarlo a cercare. Guardi, cose da film, sa quei film che abbiamo visto che testimoniano quei periodi, ecco, cose analoghe. Buche. Io mi ricordo il Corso Sempione c’è un posto molto grande che parte dal parco e c’è l’Arco della Pace in onore di Napoleone, si vedevano queste case tutte crollate, quelle case di cemento armato, con tutti questi piani messi così, quasi sezioni, buche nel parco, ancora pezzi di gente che era stata colpita. Una cosa orribile! Però, come le dico, dal punto di vista del coraggio e dell’affrontare questa cosa, forse perché si era giovani, forse perché poi io sono un tipo un po’ così, un poco spericolata di mio, non è stato terrore, salvo quel momento di panico che le ho detto, ma il tutto l’ho affrontato come un’avventura. Ci è andata anche bene eh! Perché se si fosse stati presi non so che cosa… poi soprattutto tutti questi cari, queste persone vicine…